Rose, gigli, foglie di basilico e di mirto, resine, radici, semi aromatici
e succhi oleosi ottenuti dalla spremitura di olive verdi (omphacia)
e dai frutti acerbi della vite (agresta) erano gli ingredienti base
dei profumi di 2000 anni fa fabbricati nelle botteghe rinvenute nell'antica
città di Pompei. In Campania, dove i principali centri dell'industria
dei profumi erano Capua e Napoli, anche Pompei era molto attiva nella
produzione di essenze odorose: lo testimonia la presenza di numerose
botteghe e officine (tabernae e officinae) che la lava ha conservato
e fermato nel tempo.Architetture, pitture, iscrizioni e, più
recentemente, una maggiore conoscenza della flora e della botanica antica,
attestano un uso delle piante frequente in ogni sfera del vivere quotidiano.
Al mondo vegetale, usato per fini alimentari, tessili, religiosi, attingeva
anche l'attività cosmetica e curativa di farmacisti-farmacopoli,
erboristi-rizotomi e olearii e unguentarii, ovvero i "nasi"
degli antichi romani.
Non essendo ancora diffuso il processo di distillazione - forse già
conosciuto cinquemila anni fa nella valle dell'Indo, ma riscoperto e
introdotto dagli Arabi in Europa solo nel IX secolo d.C. - il profumo
antico differisce notevolmente da quello moderno, per la sua base costituita
da grasso animale e olio vegetale, da cui il nome latino unguentum.
" Due sono gli elementi utilizzati nella fabbricazione del profumo,
- scrive Plinio - il succo e l'essenza: il primo, in genere, consiste
nei vari tipi di olio, la seconda negli odori; nell'un caso si parla
di elementi 'astringenti '( stymmata), nell'altro di 'aromi '( hedysmata).
Un terzo elemento, connesso con questo, è il colore; per produrlo
si aggiunge cinabro ( minerale rosso) e ancusa ( Alcanna tinctoria).
Una spruzzata di sale ha la funzione di mantenere inalterata la natura
dell'olio. Si addizionano resina o gomma per fissare all'essenza l'aroma
che, in caso contrario, rapidissimamente svanisce e si perde. Tra i
profumi il più semplice e, verisimilmente, il primo ad essere
inventato, fu quello ricavato dal muschio e dall'olio di balano; in
seguito il profumo di Mende si arricchì di olio di balano, di
resina, di mirra, mentre ancora più complessa è, ai nostri
giorni, la ricetta del Metopio. Questo è un olio estratto, in
Egitto, da mandorle amare, al quale sono stati addizionati agresto,
cardamomo, giunco profumato, calamo aromatico, miele, vino, mirra ,seme
di balsamo, galbano e resina di terebinto" ( Plinio, Naturalis
Historia., XIII, 7-8).
E' noto che nell'Urbe i profumieri, riuniti in una corporazione, il
collegium aromatarium, avevano botteghe concentrate nel vicus Thuriarus
e nell'attiguo vicus Ungentarius al Velabro, mentre dell'esistenza dei
profumieri pompeiani fino a ieri non esistevano che poche tracce epigrafiche,
come per esempio alcuni manifesti elettorali in cui la corporazione
degli unguentarii appoggiava, insieme ai poveri , l'edilità di
un tale Modesto: " MODESTUM - AED (ilem) UNGUENTARI ET PAUPERES
FACITE".
Gli unguentarii di cui ci sono pervenuti i nomi sono un M. Decidio Fausto,
che fu uno dei sacerdoti della Fortuna Augusta nell' anno 3 d.C. , ed
un certo Febo che ci trasmise il suo nome in un graffito scritto sulla
parete del lupanare. Un unguentario fu pure un certo Agatho. Mentre
un tale Felicione, per testimonianza di due manifesti ritrovati al numero
25 della Regione 5, fu probabilmente erborista-lupinarius.
LA POMATA DELL'ERBORISTA FELICIONE
Egli, s'intende bene, non doveva vendere solo lupini, che insieme al
miele costituivano la base della pomata detta lomentum , ma anche erbe
e legumi per la preparazione di quelle maschere di bellezza citate da
Plinio, Galeno, Ovidio. In Medicamena faciei faeminae ,Ovidio, il poeta
di Sulmona, per esempio scrive:
" Non esitare ad abbrustolire i pallidi lupini
e nel contempo fa' cuocere grani di fava gonfiata:
gli uni e gli altri abbiano la medesima misura: sei libbre,
riduci in polvere entrambi con delle mole nere.
Abbi a portata di mano della biacca, schiuma di rosso nitro
e dell'iris proveniente dalla terra illirica.
Braccia di giovani forzuti provvedano a un vigoroso impasto,
ma ( attenzione che) i componenti tritati abbiano il peso di un'oncia
( la dodicesima parte di una libbra, 27 grammi circa).
Dopo aver aggiunto la sostanza presa dal nido dei queruli alcioni,
vedrai che elimina le macchie dal volto ( la chiamano alcioneo).
Se mi chiedi quale quantità sia per me ottimale, ti
dico che è sufficiente un'oncia divisa in due parti.
Perché si mescolino bene e possano essere spalmati sulla pelle,
aggiungi del miele dorato prodotto dai favi dell'Attica". (Ovidio,
Medicamena 69-83).
Orzo, lenticchie, rape, lupini, bulbi di iris abbrustoliti e tritati,
mescolati al miele, a polvere di corna di cervo, a sterco di uccelli
marini ( alcioni) e ad altri ingredienti per preparare maschere di bellezza
sbiancanti ed emollienti forse dovevano essere reperibili nella bottega
dell'erborista Felicione, insieme ai papaveri necessari per refrigerare
ed astringere la pelle. ( "Ho visto una donna - scrive Ovidio in
Medicamena 99-100) che pestava papaveri fatti macerare nell'acqua gelida
e li spargeva sulle sue morbide guance
").
Il negozio dell'erborista-lupinarius Felicione forse si trovava in un
quartiere popolare, ma a giudicare dalle citate iscrizioni elettorali
i negozi degli unguentarii Decidio, Febo ed Agatho si trovavano al centro
della città commerciale, presso il Foro o ancor più il
Macello, da intendersi, questo, a differenza del moderno significato
della parola, come il mercato dei generi commestibili. Dovevano essere
piccoli ed eleganti negozi, talvolta anche luoghi di preparazione, mentre
le officine con giardino annesso per la produzione delle materie prime
dovevano trovarsi alla periferia della città.
LA CASA DEL PROFUMIERE
Nell'area archeologica di una di queste officine , la Casa del giardino
di Ercole, la dottoressa Annamaria Ciarallo, biologo direttore del Laboratorio
Ricerche Applicate che da anni studia i ritrovamenti storici e artistici
e compie analisi dei pollini , ha ritrovato semi e resti di piante carbonizzate,
conservati dal Vesuvio, che le hanno permesso di ricostruire con precisione
le coltivazioni di quel giardino. L'area della Casa del Giardino di
Ercole fa oggi parte del progetto di recupero e ripristino delle aree
verdi.. Il giardino coltivato ad olivo e piante aromatiche grazie alle
cure della dottoressa Ciarallo e dei suoi collaboratori trasformatosi
in topiarii, i giardinieri romani dell'epoca, è stato recentemente
aperto al pubblico e oggi si presenta ai visitatori nella sua forma
originale, mentre un'erboristeria , ricettari antichi alla mano, ha
riprodotto gli unguenti Okiminon ( basilico) e Rhodinon ( rosa) con
gli stessi metodi delle botteghe pompeiane sepolte da un'immane coltre
di ceneri e lapilli dalla famosa eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. La
novità è stata presentata nel mese di aprile scorso dal
sovrintendente degli Scavi di Pompei Pietro Giovanni Guzzo, dal direttore
amministrativo Giuseppe Gherpelli e dal direttore dell'area archeologica
Antonio D'Ambrosio.
Il Giardino di Ercole, di circa 4000 metri quadri , si trova nella Regione
II, insula 8 degli Scavi di Pompei, nei pressi della palestra grande
dove sono ancora visibili i calchi dei platani che ornavano la vasca,
lungo un tratto della via di Nocera ricca di orti e di vigneti dove
già si respira un'aria sobborgo. Sulla soglia un mosaico di tessere
bianche ammonisce qualche cliente : " CRAS CREDO", cioè
"Domani farò credito". Più che una casa si tratta
di una piccola officina e bottega, affiancata da un giardino il cui
studio ha indirizzato botanici e archeologi verso testimonianze di una
produzione di olio di oliva per la preparazione dell'omphacia , di una
coltivazione di fiori e quindi una produzione di profumi-unguenti e
forse anche di piante impiegate nella confezione di ghirlande e di corone
( "piante coronarie", dette anche stephanomatikà).
Insieme agli olivi e alla vite, il giardino raccoglie una coltura sperimentale
di erbe ed essenze per la riproduzione degli antichi profumi di Pompei:
Viola mammola, Rosa centifolia, versicolor e damascena, Ocinum basilicum,
Anethum graveolens, Hiacinthus Romanus, Ruta graveolens, Thymus serpyllum,
Pimpinella anisum, Borago officinalis, Origanum maggiorana, Menta suavolens,
Iris fiorentina, Melissa officinalis . In base alle fonti letterarie,
agli affreschi d'epoca e alle indagini di scavo e di laboratorio come
le analisi dei pollini riscontrati sul posto, tali piante sono probabilmente
le principali essenze che anche l'ultimo abitante della casa coltivava
nel suo giardino, così come consigliato da Varrone: " E'
redditizio avere vicino alla città un giardino per la richiesta
di violette, rose ed altri prodotti" ( Citato da Columella, in
De re rustica, I, 16.3).
La Casa prende il nome da un larario che si trova a un lato del giardino,
con un'ara per le offerte votive e una statuina di Ercole. Vi è
installato, oltre a un canile, un triclinio all'aperto, ombreggiato
dalla vite e con letti in muratura accanto ai quali sono stati ritrovati
monete ed anelli in oro. Qui, in un'atmosfera di sensualità,
di malizia e di malinconia sembra ancora vedere sdraiate le ombre dei
convitati riuniti a banchetto per festeggiare qualche buon affare e
offrire agli dèi, come d'uso secondo l'antica religio, la decima
dei loro guadagni innanzi all'ara di Ercole.
La superficie del giardino presenta letti e canali per l'irrigazione,
mentre a un lato si trova un semenzaio in muratura per la messa in dimora
delle piantine, tra cui alcune di cedro e limone. Vi si respira un'aria
d'industriosità minuziosa e sapiente, e tutto lascia credere
di trovarsi in presenza di un hortulo di periferia che è anche
laboratorio e bottega. Dalle analisi dei pollini di olivo, di essenze
di fiori e di piante aromatiche, dalla presenza di contenitori in vetro
e in terracotta ritrovati in numero rilevante, pare proprio di poter
concludere che vi si producessero e commerciassero profumi, per cui
oggi il Giardino di Ercole viene denominato Casa del Profumiere.
LA FLORA LOCALE
Le rose ricorrono, insieme ai gigli, ai papaveri e alle viole, in numerosi
affreschi pompeiani del tipo detto "pittura di giardino".
Le si vedono, per esempio, sbocciare nelle pitture della Casa del bracciale
d'oro e, in forma di ghirlanda, in una pittura della Casa del Frutteto,
dove in uno dei due cubicoli ( stanze da letto) vi è un affresco,
molto ben conservato, raffigurante tra l'altro anche un giardino con
oleandri, lauri, mirti, palme e qualche albero da frutto come limone,
corbezzolo, ciliegio.
Nell'agro pompeiano, alla foce del fiume Sarno, piante e fiori adatti
alla produzione dei profumi rendevano possibile l'esistenza di un mercato
forse meno ricco di quello di Napoli e meno sofisticato di quello realizzato
da Cleopatra sulle sponde del Mar Morto, ma importante. Insieme alle
spezie esotiche importate, come per esempio la mirra, si poteva attingere
alla ricca flora locale.
Anzitutto vi era dunque la rosa, i cui petali secchi polverizzati costituivano
i diapasmata, polverine aspersorie e da bruciare negli incensieri ,
mentre in associazione a finocchio, mirra e incenso in olio o in "agresto"
costituiva la base del profumo Rhodinon o Rhodinum, il profumo più
diffuso dell'epoca nonché il più economico. Potremmo ipotizzare
l'uso del profumo di rose in Pompei. Durante le rappresentazioni teatrali
e anfiteatrali, oltre al grande telo o velarium teso sugli spettatori
per ripararli dal sole, su di essi venivano spruzzati getti d'acqua
misti a profumi. Tali sparsiones , costituite da getti di acque odorose
e di polveri aromatiche sparse sugli attori e sugli spettatori, a Pompei
forse erano a base di rosso croco e di profumo di rosa.
Della rosa campana di Napoli, Capua e Pompei parla diffusamente Plinio
il Vecchio in quel vero e proprio trattato enciclopedico di erboristeria
e profumeria che sono i Libri XII - XXVII della Naturalis Historia .
" Tra i fiori da giardino - scrive Plinio - la nostra gente ne
conosce solo pochissime da far ghirlande, praticamente solo le viole
e le rose (
). La rosa si fa macerare nell'olio, e questo già
dal tempo della guerra di Troia, come attesta Omero. Inoltre la si fa
entrare nei profumi (
). Le specie di rose che da noi hanno acquistato
maggiore celebrità sono la prenestina e la campana
"
( N.H,. XXI, 14-16).
IL RICETTARIO DI PLINIO
Seguendo le notizie e le indicazioni di Plinio - che specialmente
nel libro XIII della Naturalis Historia segue fedelmente Teofrasto,
e in particolare l'Historia plantarum, il trattato De causis plantorum
e gli Odores - proviamo a ricostruire le fragranze "storiche"
dell'epoca: sia quelle semplici come il Rhodinon di produzione locale
sia quelle più sofisticate che i marinai romani di Pozzuoli e
Ostia, grandi scali marittimi dell'impero romano, importavano dalle
province dell'Est in stive colme di spezie, profumi e atmosfera orientale.
" Tra i profumi attualmente più comuni - scrive Plinio -
c'è quello costituito da olio di mirto, da calamo aromatico,
cipresso, henna, lentisco e scorza di melagrana. Ma io sarei incline
a credere che i profumi più diffusi siano quelli estratti dalla
rosa, che cresce ovunque in abbondanza. Questo è il motivo per
cui fu per lungo tempo semplicissima la ricetta del rodino , che richiede
aggiunte di agresto, petali di rosa, olio di zafferano, cinabro, calamo
aromatico, miele, giunco profumato, fiore di sale ( cioè carbonato
di sodio o soda) o ancusa, vino". ( N.H...XIII, 9).
La stessa popolarità del Mirtum-Laurum e del profumo di rose
aveva il Crocinum , il profumo di zafferano, cui si aggiungeva cinabro,
ancusa e vino; nonché il profumo di maggiorana, con addizioni
di agresto e di calamo aromatico.
Segue il Melinum, ricavato dalle mele cotogne con aggiunte di agresto,
olio di henna, olio di sesamo, balsamo, giunco profumato, cannella,
abrotano. C'è poi il Susinum, composto di gigli, olio di balano,
calamo aromatico, miele, cinnamo, zafferano, mirra. Questi, il Susinum,
viene definito da Plinio "tenuissimum" ("tra tutti i
profumi il più fluido"), al pari del profumo di henna, "che
richiede henna, agresto e cardamomo, nonché calamo aromatico,
spalato e abrotano; alcuni vi aggiungono cipero, mirra e panacea"
( N.H. XIII, 12).
Il susino forse era la versione di derivazione egizia del locale profumo
di gigli, l'Illirium o Lirium. Il nome susinum deriva dal greco sousinon,
aggettivo coniato su sousos, che indica il giglio ( l'altro nome del
giglio era leìron). Sousos a sua volta deriva dall'arabo shuushan
o suushin. Va notato che a Pompei, nell'anno 79 d.C. , vi era una colonia
cosmopolita di Egiziani e di medio-orientali, e che gli Ebrei di Pompei,
importatori del prezioso Balsamo di Giudea, erano abili nella preparazione
dell'olio santo prescritto dalla Bibbia, . D'altra parte, i nomi dei
profumi prendono in genere o quelli del principale ingrediente, oppure
quelli del luogo di produzione che l'ha reso celebre.
Plinio elenca, per esempio, anche il Telinum, che prende il nome dall'isola
di Telo, nelle Cicladi, luogo maggiore di produzione. Il telino, che
pare fosse il profumo preferito da Giulio Cesare, si faceva con olio
fresco, fieno greco, maggiorana e meliloto. Il telino, aggiunge Plinio,
era profumo in voga ai tempi del poeta greco Menandro, che più
tardi cedette il posto al famoso Megalium, il grande profumo dell'Antichità
composto da olio di balano, calamo aromatico, giunco profumato, xilobalsamo,
cannella, resina.
Dopo aver elencato il materiale per le adulterazioni, specialmente del
costosissimo nardo indiano adulterabile con "nove specie di erbe
somiglianti", Plinio parla del più pregiato tra i profumi,
e cioè del "regale", così chiamato perché
preparato per il re dei Parti, antico popolo iranico. Il Regale unguentum
si compone di : " mirabolano, costo, amomo, cinnamo comaco, cardamomo,
spiga di nardo, maro, mirra, cannella, storace, ladano, opobalsamo,
calamo aromatico e giunco profumato della Siria, enante, malobatro,
sericato, henna, spalato, panacea, zafferano, cipero, maggiorana, loto,
miele, vino" ( N.H. XIII, 18). Si noti che per alcuni di questi
componenti citati dall'autore latino, come per esempio il sericato ("serichato"),
l'identificazione è impossibile.
"Nessuno di questi ingredienti che compongono il 'regale' - continua
Plinio forse rammaricato dall'emorragia finanziaria causata a Roma dall'importazione
di tali sostanze - si produce in Italia, che pure è la vincitrice
di tutte le genti, e nessuno invero nell'intera Europa, fatta eccezione
per l'iris dell'illirico e il nardo di Gallia. Infatti il vino, le rose,
le foglie di mirto e l'olio si possono ritenere diffusi un po' dappertutto"
( N.H. XII, 18).
LA MANIFATTURA DEI PROFUMI
La pittura pompeiana, unitamente ai rilevamenti archeologici, epigrafici
e letterari ci mostra anche l'attività interna delle officinae
per la produzione e la vendita dei profumi. La più evidente rappresentazione
di tal genere è quella dell' affresco parietale del triclinio
della Casa dei Vetti ( regione VI, insula 15 degli scavi di Pompei)
, da datarsi intorno al 62 d.C.
Amorini e psichi, dipinti nel fregio parietale del triclinio, hanno
preso il posto degli operai nelle varie fasi della preparazione dell'unguentum.
E così sulla destra si vedono due amorini intenti a martellare
i cunei di uno speciale torchio per spremere l'olio di base del profumo,
presumibilmente un omphacium ottenuto da olive verdi. Accosto si scorgono
alcuni vasi maceratori ove gli oli vengono mescolati con le parti di
piante aromatiche da altri due amorini e riscaldati da una psiche alata
seduta su uno sgabello. Al centro c'è il banco con un papiro-
ricettario, una bilancia per le dosi, bottiglie e ampolline da profumo:
un amorino o cupido regge un'ampolla. Alle sue spalle, un armadietto
aperto nel quale si scorgono altre ampolle vitree forse prodotte nell'area
del Volturno e la statuetta di un dio. Un altro vaso maceratore su un
tripode è posto immediatamente a sinistra dell'armadietto.
Sulla sinistra la scena si conclude con una fanciulla con ali da farfalla
seduta su uno scanno rosso porpora, che saggia un profumo portandosi
il polso al naso; di fronte a lei un amorino con un'anfora e una spatola
per estrarne il profumo, alle sue spalle invece la sua "puella
ad pedes" regge un ventaglio.
E' interessante notare come le attività di produzione e di vendita
dei profumi avvengano nello stesso luogo, probabilmente una di quelle
officine-botteghe come sono state spesso rintracciate nelle insulae
di Pompei. "Quello che conosciamo - nota a tale proposito l'archeologo
Massimo Brizzi - riguarda soprattutto il commercio minuto, la vendita
nella bottega, quando, secondo quando è noto dai dipinti pompeiani,
il profumo era imbottigliato nelle ampullae vitrae. E' probabile che
molti prodotti fossero commercializzati in questi stessi contenitori
adeguatamente imballati, ma non si esclude l'uso di vasi di altra natura
che implicavano l'imbottigliamento nelle ampullae sul luogo di vendita."
I profumi, infatti, potevano essere contenuti per motivi commerciali
in anfore di varia grandezza e poi trasferiti in portaprofumi di piccole
dimensioni, di fattura particolarmente elegante e una certa varietà
di forme: a sfera, a forma di colombine in vetro soffiato o di testa
di donna. I più preziosi, fra quelli rinvenuti a Pompei, sono
gli alabastra egiziani di forma oblunga. Con materiale diverso, dalla
terracotta alla pasta vitrea, si fabbricavano altri contenitori, quali
il globulare aryballo
che - sostenuto da una sottile cordicella passata alle anse - si poteva
portare alla cintura, e l'oinochoe a forma di piccola brocca dall'orlo
trilobe. E ancora il tipico balsamario a forma tubolare, forma arrotondata
e labbro estroverso, simile alle boccette in vetro soffiato realizzate
da Antica Erboristeria Pompeiana dei fratelli Ersilia e Federico Nappo
per contenere la riproduzione di alcuni esemplari di unguenti Okiminon
( basilico) e Rhodinon ( rosa) andati a ruba, il mese di aprile scorso,
durante l'inaugurazione della mostra presso la Casa del Profumiere di
Pompei.
Vi erano poi le ancorette, le coppette di piccole dimensioni e le pissidi
che dagli autori antichi erano considerate come recipienti per medici
e cosmetici. L'industria degli unguenti si serviva anche di bottiglie
a sezione quadrata come dimostra il rinvenimento a Pompei di esemplari
che contengono residui di un olio vegetale che, come ricordava Plinio
( N.H., XIII, 7) entrava nel processo di lavorazione dei profumi. Alcuni
di questi contenitori rinvenuti a Pompei sono oggi esposti in una sala
del Museo Archeologico di Napoli.
Mentre Pompei, "verdeggiante di vigneti ombrosi", nel 79 d.C.
viene "sommersa" insieme ad Ercolano, Stabia e la vicina Oplontis
" in fiamme e triste lapillo"- come canta nelle Odi il poeta
Marco Valerio Marziale, - le manifatture italiche dei profumi scompaiono
pressoché totalmente verso la fine del II sec. d.C. , a vantaggio
delle manifatture alessandrine delle coste della Palestina, della Fenicia
e dell'Egitto. Le manifatture orientali non serviranno più Roma
e l'Italia, ma l'insieme delle città dell'Impero percorse da
orde di barbari dilaganti da tutte le frontiere , a nord e ad est, della
civiltà romana. Goti, Alani e Unni, esattori di altissimi tributi,
erano avidi di assaporare sempre più il gusto della raffinatezza
romana. Nuovi popoli, i barbari inizialmente arruolati tra le truppe
imperiali e poi strangolatori del grande Impero Romano, assimilarono
la cultura materiale degli unguentarii e degli erboristi italici in
nuovi contesti religiosi e sociali e diffusero sino ad epoca bizantina
ed islamica la tradizione romana degli aromi.
E' questa tradizione che abbiamo voluto ricordare, rileggendo Plinio,
studiando alle luce delle nuove ricerche sull'argomento gli affreschi
delle ville e visitando i ruderi della Casa del Profumiere di Pompei,
il cui giardino di fiori odorosi sovrastato dal Vesuvio è ritornato
verde grazie alla cura della dottoressa Annamaria Ciarallo e dei suoi
collaboratori.
Questi, sfidando i meandri della burocrazia e il degrado e la rozzezza,
anche camorristica, che purtroppo, com'è noto, assedia come una
nuova lava il territorio vesuviano e gli scavi archeologici più
famosi e visitati del mondo, sono già alle prese con un secondo
esperimento di "cultura materiale". Ad ottobre infatti c'è
a Pompei la prima vendemmia "storica" dopo duemila anni, che
riproduce fedelmente il vino degli antichi romani. La vigna, affidata
dalla Sovrintendenza di Pompei alla casa vinicola Mastrobernardino ,
è stata ricostruita seguendo le precise indicazioni dei testi
classici e si trova nei pressi della via di Nocera a due passi dalla
Casa del Profumiere.
IL MONDO DEGLI AROMI ROMANO
A Pompei, durante l'Impero, i profumi avevano raggiunto livelli altissimi,
perché i Romani di allora, ormai padroni del mondo Mediterraneo
ed aperti al commercio con i popoli africani ed asiatici, intendevano
"godere intensamente con tutti i sensi". Originariamente,
però, gli aromi svolgevano una funzione igienica e, nel tempo
più antico, erano legati a cicli mitologici e a pratiche religiose.
Il mirto, ad esempio, era collegato al culto di Venere; l'edera a quello
di Bacco-Dioniso; l'alloro a quello di Febo-Apollo, perché espressione
della trasformazione della ninfa Dafne per sfuggire all'amoroso inseguimento
del Dio. Fin dai primi albori, i pastori adornavano di lauro la porta
dell'ovile e purificavano la mandra con il fuoco, con lo zolfo e con
acqua, bruciando resine di pino, rosmarino ed erbe sabine, considerati
elementi lustrali. Durante la grande festa della dea Pales, si bruciavano
essenze vegetali ed offrivano focacce, sorgo e latte alla dèa
nella stessa secchia in cui si mungeva. Venuta poi la sera si accendevano
fuochi che i pastori attraversavano d'un salto, altra forma di lustrazione
usata, secondo Dionigi ( I, 88), da Romolo stesso prima di tracciare
le mura della nuova città. Nella Roma arcaica, come nell'ambiente
paleoitalico, la pratica aromataria è collegata alla pietas,
intesa come doveroso tributo agli dèi, alla patria e agli antenati.
Si facevano corone di lauro, mirto, edera o trifoglio e sulle are si
bruciavano delle sostanze odorose, e questa sacra pratica era detta
pro fumo tribuere, cioè onorare con il fumo. Venivano onorati
con fumo aromatico gli spiriti o Geni dei luoghi , gli dèi, i
morti e anche personaggi divinizzati. Durante i trionfi di Cesare, per
esempio, i sacerdoti precedevano il vincitore portando nelle giare fumanti
il profumo, come davanti a una divinità.
Dalla Repubblica all'Impero, man mano che aumentarono le conquiste e
i contatti con altri popoli, il rigido costume delle genti italiche
fu sovvertito dal lusso .
" Non saprei dire facilmente - scrive Plinio - quando sia penetrato
a Roma l'uso del profumo. Certo è che, debellati il re Antioco
( re di Siria sconfitto alle Termopoli nel 191 a.C.) e l'Asia, i censori
Publio Licinio Crasso e Lucio Giulio Cesare promulgarono un editto che
vietava a chiunque di vendere profumi 'esotici '. Eppure qualcuno oramai,
per Ercole, li mischia anche alle bevande, e il loro aspro aroma è
tenuto in così grande considerazione che il corpo trae piacere
dall'abbondante odore sia all'interno che all'esterno". E ancora:
" Questa è la materia di un lusso che tra tutti è
il più vano. Infatti le perle e le gemme perlomeno passano agli
eredi, le vesti durano nel tempo: i profumi invece si dissolvono istantaneamente
e muoiono appena nati. Il loro massimo pregio consiste nel fatto che,
quando passa una donna, la sua scia attira anche chi è affaccendato
in tutt'altra cosa (
). Certuni, poi, ricercano soprattutto i profumi
consistenti, che chiamano 'spessi ', e amano non solo cospargersene,
ma addirittura spalmarseli addosso. Abbiamo visto gente che si profumava
persino le piante dei piedi, usanza che, secondo la tradizione, fu mostrata
all'imperatore Nerone da Marco Ottone (
) Inoltre abbiamo sentito
raccontare che un tale, un cittadino privato, aveva dato ordine di cospargere
di profumo le pareti del bagno e che l'imperatore Gaio Caligola faceva
profumare le vasche del bagno (
) Ciò che più stupisce,
però, è che questa mollezza sia penetrata anche all'interno
dei campi militari; certo, le aquile e le insegne, polverose e irte
con le loro punte di lancia, nei giorni di festa vengono cosparse di
profumi e magari potessimo dire chi per primo ha introdotto tale usanza!
Una cosa è certa, comunque: corrotte da questa ricompensa le
nostre aquile hanno sottomesso il mondo; e noi, così giustificati
per i nostri vizi, ci possiamo legittimamente mettere il profumo sotto
l'elmetto (
) Fra tutti i paesi, l'Egitto è il più
idoneo alla produzione di profumi; segue la Campania per l'abbondanza
di rose" ( N.H., XIII, 26) .
Con la conquista della Grecia e dell'Egitto ( II-I sec. a.C.) i Romani
importarono spezie fin dal lontano Oriente e apprezzarono sempre più
i profumi inserendoli nel loro stile di vita: unguenti, polveri profumate,
cosmetici, incenso, droghe. Gli scrittori classici raccoglievano sotto
il termine di aromata i profumi; di thumiamata gli incensi; di condimenta
le sostanze preservanti; di theriaca le sostanze per fare antidoti ai
veleni.
Tra gli studi sul mondo degli aromi romano si segnala il progetto di
esperti italiani per la conservazione del complesso di Khor Rori, l'antico
Sumburam, il celebre porto di Moscha nell'Oman, da dove transitavano
nell'antichità incenso, mirra e le più rinomate essenze
profumate. Per quanto riguarda Pompei, va segnalato inoltre il recente
ritrovamento di resti sul fondo di un'anfora nei pressi di Scafati,
che una volta analizzati dal Laboratorio di Ricerche della Soprintendenza
di Pompei, si sono rivelati come il famoso antiveleno utilizzato da
Mitridate, il re dei Parti. Nella theriaca del reperto di Scafati, in
particolare, mescolati a reperti animali, come carne di vipera e ossa
di animali, c'erano quarantasette tipi di vegetali che faranno oggetto
di uno studio della dottoressa Annamaria Ciarallo di prossima pubblicazione.
BIBLIOGRAFIA
MASSIMO BRIZZI, " I profumi tra archeologia e fonti letterarie:
il mondo romano", in AA.VV. , Aromatica, a cura di Serafina Pennestrì,
Selcom Editoria, Torino 1995.
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WILHELMINA F. JASHEMSKI, The gardens of Pompei, Aristide D. Caratzas
Publisher, New York 1993.
Ringraziamo la dottoressa Daniela Leone dell'Ufficio Stampa della Soprintendenza
Archeologica di Pompei , il signor Mattia Bondonno che ci ha guidati
fra le case e i giardini di Pompei, e il dottor Federico Nappo del Laboratorio
Erboristico Officinale - Antiqua Haerboristeria Pompeiana.
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