PROFUMI E UNGUENTI IN
POMPEI ANTICA

di Luigi Cristiano
e Gianni De Martino

(da Erboristeria Domani n.10 Novembre 2001)

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Rose, gigli, foglie di basilico e di mirto, resine, radici, semi aromatici e succhi oleosi ottenuti dalla spremitura di olive verdi (omphacia) e dai frutti acerbi della vite (agresta) erano gli ingredienti base dei profumi di 2000 anni fa fabbricati nelle botteghe rinvenute nell'antica città di Pompei. In Campania, dove i principali centri dell'industria dei profumi erano Capua e Napoli, anche Pompei era molto attiva nella produzione di essenze odorose: lo testimonia la presenza di numerose botteghe e officine (tabernae e officinae) che la lava ha conservato e fermato nel tempo.Architetture, pitture, iscrizioni e, più recentemente, una maggiore conoscenza della flora e della botanica antica, attestano un uso delle piante frequente in ogni sfera del vivere quotidiano. Al mondo vegetale, usato per fini alimentari, tessili, religiosi, attingeva anche l'attività cosmetica e curativa di farmacisti-farmacopoli, erboristi-rizotomi e olearii e unguentarii, ovvero i "nasi" degli antichi romani.
Non essendo ancora diffuso il processo di distillazione - forse già conosciuto cinquemila anni fa nella valle dell'Indo, ma riscoperto e introdotto dagli Arabi in Europa solo nel IX secolo d.C. - il profumo antico differisce notevolmente da quello moderno, per la sua base costituita da grasso animale e olio vegetale, da cui il nome latino unguentum.
" Due sono gli elementi utilizzati nella fabbricazione del profumo, - scrive Plinio - il succo e l'essenza: il primo, in genere, consiste nei vari tipi di olio, la seconda negli odori; nell'un caso si parla di elementi 'astringenti '( stymmata), nell'altro di 'aromi '( hedysmata). Un terzo elemento, connesso con questo, è il colore; per produrlo si aggiunge cinabro ( minerale rosso) e ancusa ( Alcanna tinctoria). Una spruzzata di sale ha la funzione di mantenere inalterata la natura dell'olio. Si addizionano resina o gomma per fissare all'essenza l'aroma che, in caso contrario, rapidissimamente svanisce e si perde. Tra i profumi il più semplice e, verisimilmente, il primo ad essere inventato, fu quello ricavato dal muschio e dall'olio di balano; in seguito il profumo di Mende si arricchì di olio di balano, di resina, di mirra, mentre ancora più complessa è, ai nostri giorni, la ricetta del Metopio. Questo è un olio estratto, in Egitto, da mandorle amare, al quale sono stati addizionati agresto, cardamomo, giunco profumato, calamo aromatico, miele, vino, mirra ,seme di balsamo, galbano e resina di terebinto" ( Plinio, Naturalis Historia., XIII, 7-8).
E' noto che nell'Urbe i profumieri, riuniti in una corporazione, il collegium aromatarium, avevano botteghe concentrate nel vicus Thuriarus e nell'attiguo vicus Ungentarius al Velabro, mentre dell'esistenza dei profumieri pompeiani fino a ieri non esistevano che poche tracce epigrafiche, come per esempio alcuni manifesti elettorali in cui la corporazione degli unguentarii appoggiava, insieme ai poveri , l'edilità di un tale Modesto: " MODESTUM - AED (ilem) UNGUENTARI ET PAUPERES FACITE".
Gli unguentarii di cui ci sono pervenuti i nomi sono un M. Decidio Fausto, che fu uno dei sacerdoti della Fortuna Augusta nell' anno 3 d.C. , ed un certo Febo che ci trasmise il suo nome in un graffito scritto sulla parete del lupanare. Un unguentario fu pure un certo Agatho. Mentre un tale Felicione, per testimonianza di due manifesti ritrovati al numero 25 della Regione 5, fu probabilmente erborista-lupinarius.


LA POMATA DELL'ERBORISTA FELICIONE


Egli, s'intende bene, non doveva vendere solo lupini, che insieme al miele costituivano la base della pomata detta lomentum , ma anche erbe e legumi per la preparazione di quelle maschere di bellezza citate da Plinio, Galeno, Ovidio. In Medicamena faciei faeminae ,Ovidio, il poeta di Sulmona, per esempio scrive:

" Non esitare ad abbrustolire i pallidi lupini
e nel contempo fa' cuocere grani di fava gonfiata:
gli uni e gli altri abbiano la medesima misura: sei libbre,
riduci in polvere entrambi con delle mole nere.
Abbi a portata di mano della biacca, schiuma di rosso nitro
e dell'iris proveniente dalla terra illirica.
Braccia di giovani forzuti provvedano a un vigoroso impasto,
ma ( attenzione che) i componenti tritati abbiano il peso di un'oncia ( la dodicesima parte di una libbra, 27 grammi circa).
Dopo aver aggiunto la sostanza presa dal nido dei queruli alcioni,
vedrai che elimina le macchie dal volto ( la chiamano alcioneo).
Se mi chiedi quale quantità sia per me ottimale, ti
dico che è sufficiente un'oncia divisa in due parti.
Perché si mescolino bene e possano essere spalmati sulla pelle,
aggiungi del miele dorato prodotto dai favi dell'Attica". (Ovidio, Medicamena 69-83).

Orzo, lenticchie, rape, lupini, bulbi di iris abbrustoliti e tritati, mescolati al miele, a polvere di corna di cervo, a sterco di uccelli marini ( alcioni) e ad altri ingredienti per preparare maschere di bellezza sbiancanti ed emollienti forse dovevano essere reperibili nella bottega dell'erborista Felicione, insieme ai papaveri necessari per refrigerare ed astringere la pelle. ( "Ho visto una donna - scrive Ovidio in Medicamena 99-100) che pestava papaveri fatti macerare nell'acqua gelida e li spargeva sulle sue morbide guance…").
Il negozio dell'erborista-lupinarius Felicione forse si trovava in un quartiere popolare, ma a giudicare dalle citate iscrizioni elettorali i negozi degli unguentarii Decidio, Febo ed Agatho si trovavano al centro della città commerciale, presso il Foro o ancor più il Macello, da intendersi, questo, a differenza del moderno significato della parola, come il mercato dei generi commestibili. Dovevano essere piccoli ed eleganti negozi, talvolta anche luoghi di preparazione, mentre le officine con giardino annesso per la produzione delle materie prime dovevano trovarsi alla periferia della città.

LA CASA DEL PROFUMIERE

Nell'area archeologica di una di queste officine , la Casa del giardino di Ercole, la dottoressa Annamaria Ciarallo, biologo direttore del Laboratorio Ricerche Applicate che da anni studia i ritrovamenti storici e artistici e compie analisi dei pollini , ha ritrovato semi e resti di piante carbonizzate, conservati dal Vesuvio, che le hanno permesso di ricostruire con precisione le coltivazioni di quel giardino. L'area della Casa del Giardino di Ercole fa oggi parte del progetto di recupero e ripristino delle aree verdi.. Il giardino coltivato ad olivo e piante aromatiche grazie alle cure della dottoressa Ciarallo e dei suoi collaboratori trasformatosi in topiarii, i giardinieri romani dell'epoca, è stato recentemente aperto al pubblico e oggi si presenta ai visitatori nella sua forma originale, mentre un'erboristeria , ricettari antichi alla mano, ha riprodotto gli unguenti Okiminon ( basilico) e Rhodinon ( rosa) con gli stessi metodi delle botteghe pompeiane sepolte da un'immane coltre di ceneri e lapilli dalla famosa eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. La novità è stata presentata nel mese di aprile scorso dal sovrintendente degli Scavi di Pompei Pietro Giovanni Guzzo, dal direttore amministrativo Giuseppe Gherpelli e dal direttore dell'area archeologica Antonio D'Ambrosio.
Il Giardino di Ercole, di circa 4000 metri quadri , si trova nella Regione II, insula 8 degli Scavi di Pompei, nei pressi della palestra grande dove sono ancora visibili i calchi dei platani che ornavano la vasca, lungo un tratto della via di Nocera ricca di orti e di vigneti dove già si respira un'aria sobborgo. Sulla soglia un mosaico di tessere bianche ammonisce qualche cliente : " CRAS CREDO", cioè "Domani farò credito". Più che una casa si tratta di una piccola officina e bottega, affiancata da un giardino il cui studio ha indirizzato botanici e archeologi verso testimonianze di una produzione di olio di oliva per la preparazione dell'omphacia , di una coltivazione di fiori e quindi una produzione di profumi-unguenti e forse anche di piante impiegate nella confezione di ghirlande e di corone ( "piante coronarie", dette anche stephanomatikà).
Insieme agli olivi e alla vite, il giardino raccoglie una coltura sperimentale di erbe ed essenze per la riproduzione degli antichi profumi di Pompei: Viola mammola, Rosa centifolia, versicolor e damascena, Ocinum basilicum, Anethum graveolens, Hiacinthus Romanus, Ruta graveolens, Thymus serpyllum, Pimpinella anisum, Borago officinalis, Origanum maggiorana, Menta suavolens, Iris fiorentina, Melissa officinalis . In base alle fonti letterarie, agli affreschi d'epoca e alle indagini di scavo e di laboratorio come le analisi dei pollini riscontrati sul posto, tali piante sono probabilmente le principali essenze che anche l'ultimo abitante della casa coltivava nel suo giardino, così come consigliato da Varrone: " E' redditizio avere vicino alla città un giardino per la richiesta di violette, rose ed altri prodotti" ( Citato da Columella, in De re rustica, I, 16.3).
La Casa prende il nome da un larario che si trova a un lato del giardino, con un'ara per le offerte votive e una statuina di Ercole. Vi è installato, oltre a un canile, un triclinio all'aperto, ombreggiato dalla vite e con letti in muratura accanto ai quali sono stati ritrovati monete ed anelli in oro. Qui, in un'atmosfera di sensualità, di malizia e di malinconia sembra ancora vedere sdraiate le ombre dei convitati riuniti a banchetto per festeggiare qualche buon affare e offrire agli dèi, come d'uso secondo l'antica religio, la decima dei loro guadagni innanzi all'ara di Ercole.


La superficie del giardino presenta letti e canali per l'irrigazione, mentre a un lato si trova un semenzaio in muratura per la messa in dimora delle piantine, tra cui alcune di cedro e limone. Vi si respira un'aria d'industriosità minuziosa e sapiente, e tutto lascia credere di trovarsi in presenza di un hortulo di periferia che è anche laboratorio e bottega. Dalle analisi dei pollini di olivo, di essenze di fiori e di piante aromatiche, dalla presenza di contenitori in vetro e in terracotta ritrovati in numero rilevante, pare proprio di poter concludere che vi si producessero e commerciassero profumi, per cui oggi il Giardino di Ercole viene denominato Casa del Profumiere.


LA FLORA LOCALE

Le rose ricorrono, insieme ai gigli, ai papaveri e alle viole, in numerosi affreschi pompeiani del tipo detto "pittura di giardino". Le si vedono, per esempio, sbocciare nelle pitture della Casa del bracciale d'oro e, in forma di ghirlanda, in una pittura della Casa del Frutteto, dove in uno dei due cubicoli ( stanze da letto) vi è un affresco, molto ben conservato, raffigurante tra l'altro anche un giardino con oleandri, lauri, mirti, palme e qualche albero da frutto come limone, corbezzolo, ciliegio.
Nell'agro pompeiano, alla foce del fiume Sarno, piante e fiori adatti alla produzione dei profumi rendevano possibile l'esistenza di un mercato forse meno ricco di quello di Napoli e meno sofisticato di quello realizzato da Cleopatra sulle sponde del Mar Morto, ma importante. Insieme alle spezie esotiche importate, come per esempio la mirra, si poteva attingere alla ricca flora locale.
Anzitutto vi era dunque la rosa, i cui petali secchi polverizzati costituivano i diapasmata, polverine aspersorie e da bruciare negli incensieri , mentre in associazione a finocchio, mirra e incenso in olio o in "agresto" costituiva la base del profumo Rhodinon o Rhodinum, il profumo più diffuso dell'epoca nonché il più economico. Potremmo ipotizzare l'uso del profumo di rose in Pompei. Durante le rappresentazioni teatrali e anfiteatrali, oltre al grande telo o velarium teso sugli spettatori per ripararli dal sole, su di essi venivano spruzzati getti d'acqua misti a profumi. Tali sparsiones , costituite da getti di acque odorose e di polveri aromatiche sparse sugli attori e sugli spettatori, a Pompei forse erano a base di rosso croco e di profumo di rosa.
Della rosa campana di Napoli, Capua e Pompei parla diffusamente Plinio il Vecchio in quel vero e proprio trattato enciclopedico di erboristeria e profumeria che sono i Libri XII - XXVII della Naturalis Historia . " Tra i fiori da giardino - scrive Plinio - la nostra gente ne conosce solo pochissime da far ghirlande, praticamente solo le viole e le rose (…). La rosa si fa macerare nell'olio, e questo già dal tempo della guerra di Troia, come attesta Omero. Inoltre la si fa entrare nei profumi (…). Le specie di rose che da noi hanno acquistato maggiore celebrità sono la prenestina e la campana…" ( N.H,. XXI, 14-16).

 

IL RICETTARIO DI PLINIO

Seguendo le notizie e le indicazioni di Plinio - che specialmente nel libro XIII della Naturalis Historia segue fedelmente Teofrasto, e in particolare l'Historia plantarum, il trattato De causis plantorum e gli Odores - proviamo a ricostruire le fragranze "storiche" dell'epoca: sia quelle semplici come il Rhodinon di produzione locale sia quelle più sofisticate che i marinai romani di Pozzuoli e Ostia, grandi scali marittimi dell'impero romano, importavano dalle province dell'Est in stive colme di spezie, profumi e atmosfera orientale.
" Tra i profumi attualmente più comuni - scrive Plinio - c'è quello costituito da olio di mirto, da calamo aromatico, cipresso, henna, lentisco e scorza di melagrana. Ma io sarei incline a credere che i profumi più diffusi siano quelli estratti dalla rosa, che cresce ovunque in abbondanza. Questo è il motivo per cui fu per lungo tempo semplicissima la ricetta del rodino , che richiede aggiunte di agresto, petali di rosa, olio di zafferano, cinabro, calamo aromatico, miele, giunco profumato, fiore di sale ( cioè carbonato di sodio o soda) o ancusa, vino". ( N.H...XIII, 9).
La stessa popolarità del Mirtum-Laurum e del profumo di rose aveva il Crocinum , il profumo di zafferano, cui si aggiungeva cinabro, ancusa e vino; nonché il profumo di maggiorana, con addizioni di agresto e di calamo aromatico.
Segue il Melinum, ricavato dalle mele cotogne con aggiunte di agresto, olio di henna, olio di sesamo, balsamo, giunco profumato, cannella, abrotano. C'è poi il Susinum, composto di gigli, olio di balano, calamo aromatico, miele, cinnamo, zafferano, mirra. Questi, il Susinum, viene definito da Plinio "tenuissimum" ("tra tutti i profumi il più fluido"), al pari del profumo di henna, "che richiede henna, agresto e cardamomo, nonché calamo aromatico, spalato e abrotano; alcuni vi aggiungono cipero, mirra e panacea" ( N.H. XIII, 12).
Il susino forse era la versione di derivazione egizia del locale profumo di gigli, l'Illirium o Lirium. Il nome susinum deriva dal greco sousinon, aggettivo coniato su sousos, che indica il giglio ( l'altro nome del giglio era leìron). Sousos a sua volta deriva dall'arabo shuushan o suushin. Va notato che a Pompei, nell'anno 79 d.C. , vi era una colonia cosmopolita di Egiziani e di medio-orientali, e che gli Ebrei di Pompei, importatori del prezioso Balsamo di Giudea, erano abili nella preparazione dell'olio santo prescritto dalla Bibbia, . D'altra parte, i nomi dei profumi prendono in genere o quelli del principale ingrediente, oppure quelli del luogo di produzione che l'ha reso celebre.
Plinio elenca, per esempio, anche il Telinum, che prende il nome dall'isola di Telo, nelle Cicladi, luogo maggiore di produzione. Il telino, che pare fosse il profumo preferito da Giulio Cesare, si faceva con olio fresco, fieno greco, maggiorana e meliloto. Il telino, aggiunge Plinio, era profumo in voga ai tempi del poeta greco Menandro, che più tardi cedette il posto al famoso Megalium, il grande profumo dell'Antichità composto da olio di balano, calamo aromatico, giunco profumato, xilobalsamo, cannella, resina.


Dopo aver elencato il materiale per le adulterazioni, specialmente del costosissimo nardo indiano adulterabile con "nove specie di erbe somiglianti", Plinio parla del più pregiato tra i profumi, e cioè del "regale", così chiamato perché preparato per il re dei Parti, antico popolo iranico. Il Regale unguentum si compone di : " mirabolano, costo, amomo, cinnamo comaco, cardamomo, spiga di nardo, maro, mirra, cannella, storace, ladano, opobalsamo, calamo aromatico e giunco profumato della Siria, enante, malobatro, sericato, henna, spalato, panacea, zafferano, cipero, maggiorana, loto, miele, vino" ( N.H. XIII, 18). Si noti che per alcuni di questi componenti citati dall'autore latino, come per esempio il sericato ("serichato"), l'identificazione è impossibile.
"Nessuno di questi ingredienti che compongono il 'regale' - continua Plinio forse rammaricato dall'emorragia finanziaria causata a Roma dall'importazione di tali sostanze - si produce in Italia, che pure è la vincitrice di tutte le genti, e nessuno invero nell'intera Europa, fatta eccezione per l'iris dell'illirico e il nardo di Gallia. Infatti il vino, le rose, le foglie di mirto e l'olio si possono ritenere diffusi un po' dappertutto" ( N.H. XII, 18).


LA MANIFATTURA DEI PROFUMI


La pittura pompeiana, unitamente ai rilevamenti archeologici, epigrafici e letterari ci mostra anche l'attività interna delle officinae per la produzione e la vendita dei profumi. La più evidente rappresentazione di tal genere è quella dell' affresco parietale del triclinio della Casa dei Vetti ( regione VI, insula 15 degli scavi di Pompei) , da datarsi intorno al 62 d.C.


Amorini e psichi, dipinti nel fregio parietale del triclinio, hanno preso il posto degli operai nelle varie fasi della preparazione dell'unguentum. E così sulla destra si vedono due amorini intenti a martellare i cunei di uno speciale torchio per spremere l'olio di base del profumo, presumibilmente un omphacium ottenuto da olive verdi. Accosto si scorgono alcuni vasi maceratori ove gli oli vengono mescolati con le parti di piante aromatiche da altri due amorini e riscaldati da una psiche alata seduta su uno sgabello. Al centro c'è il banco con un papiro- ricettario, una bilancia per le dosi, bottiglie e ampolline da profumo: un amorino o cupido regge un'ampolla. Alle sue spalle, un armadietto aperto nel quale si scorgono altre ampolle vitree forse prodotte nell'area del Volturno e la statuetta di un dio. Un altro vaso maceratore su un tripode è posto immediatamente a sinistra dell'armadietto.
Sulla sinistra la scena si conclude con una fanciulla con ali da farfalla seduta su uno scanno rosso porpora, che saggia un profumo portandosi il polso al naso; di fronte a lei un amorino con un'anfora e una spatola per estrarne il profumo, alle sue spalle invece la sua "puella ad pedes" regge un ventaglio.
E' interessante notare come le attività di produzione e di vendita dei profumi avvengano nello stesso luogo, probabilmente una di quelle officine-botteghe come sono state spesso rintracciate nelle insulae di Pompei. "Quello che conosciamo - nota a tale proposito l'archeologo Massimo Brizzi - riguarda soprattutto il commercio minuto, la vendita nella bottega, quando, secondo quando è noto dai dipinti pompeiani, il profumo era imbottigliato nelle ampullae vitrae. E' probabile che molti prodotti fossero commercializzati in questi stessi contenitori adeguatamente imballati, ma non si esclude l'uso di vasi di altra natura che implicavano l'imbottigliamento nelle ampullae sul luogo di vendita."
I profumi, infatti, potevano essere contenuti per motivi commerciali in anfore di varia grandezza e poi trasferiti in portaprofumi di piccole dimensioni, di fattura particolarmente elegante e una certa varietà di forme: a sfera, a forma di colombine in vetro soffiato o di testa di donna. I più preziosi, fra quelli rinvenuti a Pompei, sono gli alabastra egiziani di forma oblunga. Con materiale diverso, dalla terracotta alla pasta vitrea, si fabbricavano altri contenitori, quali il globulare aryballo
che - sostenuto da una sottile cordicella passata alle anse - si poteva portare alla cintura, e l'oinochoe a forma di piccola brocca dall'orlo trilobe. E ancora il tipico balsamario a forma tubolare, forma arrotondata e labbro estroverso, simile alle boccette in vetro soffiato realizzate da Antica Erboristeria Pompeiana dei fratelli Ersilia e Federico Nappo per contenere la riproduzione di alcuni esemplari di unguenti Okiminon ( basilico) e Rhodinon ( rosa) andati a ruba, il mese di aprile scorso, durante l'inaugurazione della mostra presso la Casa del Profumiere di Pompei.
Vi erano poi le ancorette, le coppette di piccole dimensioni e le pissidi che dagli autori antichi erano considerate come recipienti per medici e cosmetici. L'industria degli unguenti si serviva anche di bottiglie a sezione quadrata come dimostra il rinvenimento a Pompei di esemplari che contengono residui di un olio vegetale che, come ricordava Plinio ( N.H., XIII, 7) entrava nel processo di lavorazione dei profumi. Alcuni di questi contenitori rinvenuti a Pompei sono oggi esposti in una sala del Museo Archeologico di Napoli.


Mentre Pompei, "verdeggiante di vigneti ombrosi", nel 79 d.C. viene "sommersa" insieme ad Ercolano, Stabia e la vicina Oplontis " in fiamme e triste lapillo"- come canta nelle Odi il poeta Marco Valerio Marziale, - le manifatture italiche dei profumi scompaiono pressoché totalmente verso la fine del II sec. d.C. , a vantaggio delle manifatture alessandrine delle coste della Palestina, della Fenicia e dell'Egitto. Le manifatture orientali non serviranno più Roma e l'Italia, ma l'insieme delle città dell'Impero percorse da orde di barbari dilaganti da tutte le frontiere , a nord e ad est, della civiltà romana. Goti, Alani e Unni, esattori di altissimi tributi, erano avidi di assaporare sempre più il gusto della raffinatezza romana. Nuovi popoli, i barbari inizialmente arruolati tra le truppe imperiali e poi strangolatori del grande Impero Romano, assimilarono la cultura materiale degli unguentarii e degli erboristi italici in nuovi contesti religiosi e sociali e diffusero sino ad epoca bizantina ed islamica la tradizione romana degli aromi.
E' questa tradizione che abbiamo voluto ricordare, rileggendo Plinio, studiando alle luce delle nuove ricerche sull'argomento gli affreschi delle ville e visitando i ruderi della Casa del Profumiere di Pompei, il cui giardino di fiori odorosi sovrastato dal Vesuvio è ritornato verde grazie alla cura della dottoressa Annamaria Ciarallo e dei suoi collaboratori.
Questi, sfidando i meandri della burocrazia e il degrado e la rozzezza, anche camorristica, che purtroppo, com'è noto, assedia come una nuova lava il territorio vesuviano e gli scavi archeologici più famosi e visitati del mondo, sono già alle prese con un secondo esperimento di "cultura materiale". Ad ottobre infatti c'è a Pompei la prima vendemmia "storica" dopo duemila anni, che riproduce fedelmente il vino degli antichi romani. La vigna, affidata dalla Sovrintendenza di Pompei alla casa vinicola Mastrobernardino , è stata ricostruita seguendo le precise indicazioni dei testi classici e si trova nei pressi della via di Nocera a due passi dalla Casa del Profumiere.

IL MONDO DEGLI AROMI ROMANO

A Pompei, durante l'Impero, i profumi avevano raggiunto livelli altissimi, perché i Romani di allora, ormai padroni del mondo Mediterraneo ed aperti al commercio con i popoli africani ed asiatici, intendevano "godere intensamente con tutti i sensi". Originariamente, però, gli aromi svolgevano una funzione igienica e, nel tempo più antico, erano legati a cicli mitologici e a pratiche religiose. Il mirto, ad esempio, era collegato al culto di Venere; l'edera a quello di Bacco-Dioniso; l'alloro a quello di Febo-Apollo, perché espressione della trasformazione della ninfa Dafne per sfuggire all'amoroso inseguimento del Dio. Fin dai primi albori, i pastori adornavano di lauro la porta dell'ovile e purificavano la mandra con il fuoco, con lo zolfo e con acqua, bruciando resine di pino, rosmarino ed erbe sabine, considerati elementi lustrali. Durante la grande festa della dea Pales, si bruciavano essenze vegetali ed offrivano focacce, sorgo e latte alla dèa nella stessa secchia in cui si mungeva. Venuta poi la sera si accendevano fuochi che i pastori attraversavano d'un salto, altra forma di lustrazione usata, secondo Dionigi ( I, 88), da Romolo stesso prima di tracciare le mura della nuova città. Nella Roma arcaica, come nell'ambiente paleoitalico, la pratica aromataria è collegata alla pietas, intesa come doveroso tributo agli dèi, alla patria e agli antenati. Si facevano corone di lauro, mirto, edera o trifoglio e sulle are si bruciavano delle sostanze odorose, e questa sacra pratica era detta pro fumo tribuere, cioè onorare con il fumo. Venivano onorati con fumo aromatico gli spiriti o Geni dei luoghi , gli dèi, i morti e anche personaggi divinizzati. Durante i trionfi di Cesare, per esempio, i sacerdoti precedevano il vincitore portando nelle giare fumanti il profumo, come davanti a una divinità.
Dalla Repubblica all'Impero, man mano che aumentarono le conquiste e i contatti con altri popoli, il rigido costume delle genti italiche fu sovvertito dal lusso .
" Non saprei dire facilmente - scrive Plinio - quando sia penetrato a Roma l'uso del profumo. Certo è che, debellati il re Antioco ( re di Siria sconfitto alle Termopoli nel 191 a.C.) e l'Asia, i censori Publio Licinio Crasso e Lucio Giulio Cesare promulgarono un editto che vietava a chiunque di vendere profumi 'esotici '. Eppure qualcuno oramai, per Ercole, li mischia anche alle bevande, e il loro aspro aroma è tenuto in così grande considerazione che il corpo trae piacere dall'abbondante odore sia all'interno che all'esterno". E ancora: " Questa è la materia di un lusso che tra tutti è il più vano. Infatti le perle e le gemme perlomeno passano agli eredi, le vesti durano nel tempo: i profumi invece si dissolvono istantaneamente e muoiono appena nati. Il loro massimo pregio consiste nel fatto che, quando passa una donna, la sua scia attira anche chi è affaccendato in tutt'altra cosa (…). Certuni, poi, ricercano soprattutto i profumi consistenti, che chiamano 'spessi ', e amano non solo cospargersene, ma addirittura spalmarseli addosso. Abbiamo visto gente che si profumava persino le piante dei piedi, usanza che, secondo la tradizione, fu mostrata all'imperatore Nerone da Marco Ottone (…) Inoltre abbiamo sentito raccontare che un tale, un cittadino privato, aveva dato ordine di cospargere di profumo le pareti del bagno e che l'imperatore Gaio Caligola faceva profumare le vasche del bagno (…) Ciò che più stupisce, però, è che questa mollezza sia penetrata anche all'interno dei campi militari; certo, le aquile e le insegne, polverose e irte con le loro punte di lancia, nei giorni di festa vengono cosparse di profumi e magari potessimo dire chi per primo ha introdotto tale usanza! Una cosa è certa, comunque: corrotte da questa ricompensa le nostre aquile hanno sottomesso il mondo; e noi, così giustificati per i nostri vizi, ci possiamo legittimamente mettere il profumo sotto l'elmetto (…) Fra tutti i paesi, l'Egitto è il più idoneo alla produzione di profumi; segue la Campania per l'abbondanza di rose" ( N.H., XIII, 26) .
Con la conquista della Grecia e dell'Egitto ( II-I sec. a.C.) i Romani importarono spezie fin dal lontano Oriente e apprezzarono sempre più i profumi inserendoli nel loro stile di vita: unguenti, polveri profumate, cosmetici, incenso, droghe. Gli scrittori classici raccoglievano sotto il termine di aromata i profumi; di thumiamata gli incensi; di condimenta le sostanze preservanti; di theriaca le sostanze per fare antidoti ai veleni.
Tra gli studi sul mondo degli aromi romano si segnala il progetto di esperti italiani per la conservazione del complesso di Khor Rori, l'antico Sumburam, il celebre porto di Moscha nell'Oman, da dove transitavano nell'antichità incenso, mirra e le più rinomate essenze profumate. Per quanto riguarda Pompei, va segnalato inoltre il recente ritrovamento di resti sul fondo di un'anfora nei pressi di Scafati, che una volta analizzati dal Laboratorio di Ricerche della Soprintendenza di Pompei, si sono rivelati come il famoso antiveleno utilizzato da Mitridate, il re dei Parti. Nella theriaca del reperto di Scafati, in particolare, mescolati a reperti animali, come carne di vipera e ossa di animali, c'erano quarantasette tipi di vegetali che faranno oggetto di uno studio della dottoressa Annamaria Ciarallo di prossima pubblicazione.

 

BIBLIOGRAFIA

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CARLO GIORDANO- ANGELANDREA CASALE, Profumi unguenti e acconciature in Pompei antica, Bardi editore, Roma 1992.
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PLINIO, Naturalis Historia, 5 voll., Einaudi, Torino 1985.
FABIO RINALDI, I segreti della bellezza romana, Biblioteca d'arte e cultura di Rydelle Laboratories, Milano 1991.
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WILHELMINA F. JASHEMSKI, The gardens of Pompei, Aristide D. Caratzas Publisher, New York 1993.


Ringraziamo la dottoressa Daniela Leone dell'Ufficio Stampa della Soprintendenza Archeologica di Pompei , il signor Mattia Bondonno che ci ha guidati fra le case e i giardini di Pompei, e il dottor Federico Nappo del Laboratorio Erboristico Officinale - Antiqua Haerboristeria Pompeiana.